Il Riso
Quando era una ragazzina di 10-11 anni (intorno al 1902-1903), mia nonna Maria Grassino andava a lavorare in risaia, come tanti ragazzi e ragazze del paese. Il viaggio fino alle risaie del Vercellese era lungo e si faceva in gruppo: si andava a piedi fino alla Dora, si attraversava il fiume con le barche che facevano il trasbordo a pagamento, poi si continuava a piedi fino a Santhià e da lì si prendeva il treno fino a Vercelli, poi di nuovo a piedi fino alla cascina (di proprietà di una marchesa) presso la quale si lavorava per la stagione.
Quando un gruppo di compaesani andava “al riso” era organizzato così: c’era un capo, la persona che manteneva i contatti con la proprietà della cascina, che cercava in paese le persone disponibili ed era responsabile di tutto il gruppo. Il gruppo di compaesani che andava a lavorare in cascina doveva essere autosufficiente e quindi era composto da mondine, cuoche, uomini (per portare gli attrezzi sul posto) e ragazzi (che portavano i barilotti con l’acqua da bere per le donne che lavoravano); quando partivano si portavano scorte di cibo (fagioli, sale e zucchero) e tornavano a casa con il riso (come pagamento in natura del lavoro).
Le ragazze dormivano tutte insieme in stanzoni e lavoravano “da un sole all’altro”, con i piedi a bagno e la schiena piegata. La nonna ricordava la fatica di quel lavoro ma raccontava anche che alla sera nessuno rinunciava ai balli nel cortile della cascina, unica fonte di distrazione e divertimento.
Conservo ancora la cassettina di legno (con incise le sue iniziali) in cui la nonna portava i pochi effetti personali, ed un piccolo “cavagnin” (cestino) fatto da lei intrecciando cinque steli di riso.
Maria Carolina Grassino