La cucina quotidiana e dei giorni di festa

 

La cucina di Carrone, fino alla fine degli anni ’40, aveva come ingredienti di base soprattutto alimenti prodotti localmente, con l’integrazione di pochi cibi che venivano dal territorio circostante o da molto lontano (come lo zucchero e il caffè, non per niente considerati alimenti preziosi, da usare solo in caso di necessità).
I cereali su cui si basava la cucina erano il grano (per il pane) e il mais (per la polenta e per il pane). Si consumava anche riso che arrivava dal vercellese, dato come compenso in natura alle donne e agli uomini per il lavoro di salariati stagionali nelle risaie.

Si consumavano poi castagne e farina di castagne, provenienti dalla val Chiusella, scambiate con il mais.

Le verdure coltivate negli orti erano soprattutto: fagioli, cipolle, rape, cavoli, insalata, zucca e patate.

Si raccoglievano anche erbe spontanee come i “girasul” (tarassaco o dente di leone), i “luvartin” (luppolo selvatico), i “furmagiait”(valeriana selvatica), i “cuiet” (silene bianca) e i “pataciun” (hipocoeris radicata, detta costolina, erba selvatica simile alla cicoria).

Tarassaco

Valeriana selvatica

 

Silene bianca

Costolina

 

 

Venivano raccolti anche frutti spontanei come more del gelso, more da rovo, fragoline selvatiche e i cornioli (“curnalin”).

 

 

 

Cornioli

Il corniolo fiorito

I funghi chiodini

Nella stagione buona si raccoglievano funghi, in particolare le “famiole” (famigliole o chiodini) nei boschetti di “gasia” (acacia) lungo le rogge.

Si consumavano poche varietà di frutta: si coltivavano, per consumo familiare, mele (soprattutto le “rusnente”, conservate tutto l’inverno nella paglia), pere, prugne (“brignon”) e pesche.

A Carrone c’erano diverse vigne, (le cui uve erano utilizzate per produzione di vino a livello familiare) e molti noci (i cui frutti venivano usati anche per ottenere olio con piccoli torchi a mano). Alcune famiglie aveva le api e producevano miele.

La poca carne consumata era quella di maiale (sotto forma di salami tra cui quello di patata e nel grasso, e poi coppe, salsicce, lardo, “fersse”, tipiche polpettine di carne di maiale rivestite da una retina di grasso) e degli altri animali da cortile come conigli, galli e galline, che davano anche le uova.

 

 

Le “fersse”

 

Le mucche producevano latte che oltre ad essere utilizzato per nutrire i vitelli, veniva in parte destinato al consumo personale o per produrre burro e formaggi freschi, sempre ad uso familiare. Le eventuali eccedenze venivano vendute. Prima della seconda guerra venivano allevate anche pecore (“munton” e “feje”) che davano latte per la produzione di formaggio.

Dal lago di Candia, attraverso venditori ambulanti, arrivavano anche pesci di lago, come le tinche; nella “rusa” al fondo del paese (Roggia del Bosco) si potevano pescare gamberi di fiume.

In tempi di magra si mangiavano anche colombi e uccellini, che facevano il nido nelle siepi di biancospino (“ciuende”), un tempo molto frequenti per segnare confini di proprietà o lungo le strade. Venivano cacciati con tagliole lepri e fagiani.

Nelle botteghe del paese o al mercato di Strambino si potevano acquistare pochi altri prodotti, come zucchero e caffè (utilizzato soprattutto per i malati) ma anche alimenti conservati sotto sale come ad esempio le acciughe, il merluzzo e le aringhe.

A Carrone c’era un (utilizzato fino agli anni ’60) dove tutte le famiglie portavano a cuocere il pane su un apposito asse dopo che lo avevano preparato in casa nell’“arca dal pan” (un grande contenitore con un coperchio scorrevole in cui si lasciava lievitare l’impasto). Veniva preparato il pane di farina bianca ma soprattutto il pane di farina di mais, il “pan ad meglia”. Un tempo il consumo di pane era molto più elevato di quello attuale perchè il pane è sempre stato alla base dell’alimentazione contadina per accompagnare qualunque cibo e “riempire la pancia” con poca spesa. Anche il pane secco era conservato e utilizzato perchè neanche una briciola di questo prezioso alimento doveva essere sprecata.

Sempre nel forno comune venivano fatti cuocere piatti come le cipolle ripiene o la torta di zucca e amaretti, trasportate sulla testa dalle donne, oppure i fagioli nella tipica pignatta in terracotta (“tofeja”), tenuta in mano per mezzo di un manico di ferro. Alla mattina presto, soprattutto nei giorni di festa, era facile incontrare le donne che tornavano dal forno con la “tofeja” e la torta portata sulla testa, sistemata su uno strofinaccio.

La “tofeja” in terraotta con il caratteristico manico in ferro

 

I piatti consumati quotidianamente in tutte le case fino alla seconda guerra mondiale erano sicuramente:

“pan e let” (zuppa di latte e pane di mais)

-la polenta (“pulainta”), che un tempo era bianca perchè non c’era ancora il mais ibrido giallo che si coltiva ora; era una polenta cucinata abbastanza soda e compatta, cotta nel paiolo di rame o di bronzo (il “bruns”), sul camino o sulla stufa, girata costantemente per quasi due ore con un bastone di legno. A fine cottura, raggiunta la giusta densità, veniva rovesciata (“ambussà”) con un abile gesto su un asse di legno e poi tagliata a fette con un filo spesso. Poteva essere consumata con latte, cavoli o più raramente con merluzzo e aringhe (l’aringa veniva appesa in mezzo al tavolo e ogni commensale vi strofinava la sua fetta di polenta per insaporirla).

-la minestra di fagioli, a volte utilizzata anche a colazione, prima di andare al lavoro nei campi.

-la minestra di riso e fagioli

-le cipolle cotte nella brace

-i cavoli ripieni (“coi pin”)

-i “fricioi” (delle specie di crocchette fatte con vari tipi di avanzi, come patate, riso o altro )

Altri piatti consumati saltuariamente erano invece:

-gnocchi di patate

-brodo di gallina (che in genere era una gallina ovaiola diventata ormai troppo vecchia per produrre uova)

-galletto in fricassea con patate (“galucio fricasà”)

-salciccia e carote fritte (“sausisa e carote frice”)

“fritura dusa”, fatta con semola, latte, zucchero e l’interno dei noccioli di pesca grattugiato. Questo piatto, che faceva parte del fritto misto piemontese, veniva preparato nelle grandi occasioni, come San Garto, Pasqua, o in occasione di eventi particolari come la visita di un parente che abitava lontano).

C’erano poi piatti tipici di specifici giorni di festa:

-Carnevale : fagioli grassi, tipici di tutto l’eporediese, che vengono cotti insieme alle cotiche di maiale condite con aglio, pepe e aromi, poi arrotolate e legate.

-Merenda di Pasquetta: si cucinavano vari tipi di frittate, soprattutto con fette di salame (frittata con il “grup”) o con erbe selvatiche come il “luvartin” (luppolo selvatico)

-Pranzo della festa (come ad esempio San Grato): oltre alla “fritura dusa” che non mancava mai, si cucinavano torta di zucca e amaretti e cipolle ripiene con amaretti e salsiccia (ricetta originaria di Vische), o anche salsiccia e carote.

-Festività dei Santi: si preparava una zuppa di cavoli con il pane (“supa ad pan e coj”) chiamata anche zuppa dei morti. Gli ingredienti di base erano cavolo verza, pane raffermo, brodo: in una pentola di terra cotta si alternavano strati di pane, cavolo lessato e brodo, poi si metteva a cuocere in forno in modo che alla fine la zuppa restasse morbida ma non liquida.

-In inverno , da metà dicembre a metà febbraio, si organizzava la cena del maiale (“saina dal purcat”), al termine della macellazione casalinga del maiale, con frattaglie e trippa che non potevano essere conservate.

Quando in una famiglia si ammazzava il maiale, alla sera venivano i parenti ad aiutare a disossare e scegliere i pezzi, poi il giorno dopo si tritava la carne con la macchina a mano; in seguito si salava e si mettevano le droghe (pepe,noce moscata, macis, salnitro) e si insaccava. Terminato il lavoro, venivano invitati a cena i parenti e gli amici e c’era l’usanza di dare un salame o due a chi aveva partecipato alla cena e a loro volta chi riceveva i salami ricambiava rendendoli quando toccava fare il salame nella propria famiglia. Non tutti erano in grado di farsi i salami da soli e solo nelle famiglie dove c’era qualcuno esperto ci si aggiustava, altrimenti ci si rivolgeva ai macellai del paese che andavano a fare il salame per conto terzi. I due più noti macellai a Carrone sono stati Francesco Crosio (“Chin dal Carabignè”) e Ottorino De Bortoli.

Anche a Carrone veniva preparato uno dei dolci tipici del Canavese, i “canestrei” (canestrelli, dei biscottini sottili cotti in una piastra in ghisa), In paese si usava l’apposito ferro che era di proprietà di una famiglia ma che veniva prestato a chi ne avesse avuto bisogno. Gli ingredienti , a quanto si ricorda, erano farina bianca, fioretto di mais e poi zucchero, strutto, uova, buccia di limone, un bicchierino di grappa (se disponibile). L’impasto si lavorava velocemente con le mani, poi si facevano dei salamini e si tagliavano dei tocchetti. Si scaldava il ferro doppio in ghisa e si mettevano, nel mezzo, i tocchetti di impasto, che venivano poi messi a cuocere su fuoco vivo del camino da una parte e dall’altra.

La cucina contadina, tipica delle campagne fino alla fine della seconda guerra mondiale, si è velocemente trasformata negli anni successivi grazie anche alle maggiori possibilità economiche e alla disponibilità sempre crescente di alimenti conservati e provenienti non solo più dal territorio circostante. Il grande cambiamento è avvenuto con il passaggio al consumo quotidiano di pasta, come primo piatto principale, con il consumo molto più frequente della carne (soprattutto carni rosse) e con la diversificazione della dieta con l’introduzione di prodotti mai consumati prima sia tutti i giorni che nei giorni di festa. Questo ha fatto sì che , dopo gli anni ’60, la cucina si è uniformata sul territorio e progressivamente, non ci sono più state differenze tra cucina contadina e quella di città.

Negli ultimi trent’anni, con la valorizzazione dei piatti tradizionali e della “cucina povera” di un tempo, alcuni piatti sono tornati di moda e anche a Carrone, in certe occasioni di festa, spesso vengono cucinati piatti tipici di un tempo.

Claudio Actis Alesina, Maria Teresa Cignetti, Maria Carolina Grassino,
con la collaborazione di Claudia Fiore, Emma Francisco, Domenica Robino